Quello che appare come una sorta di suicidio
politico per Assad, in un momento in cui la guerra volge in suo favore,
ha molti lati oscuri e poche certezze
Ieri, 4 aprile 2017, su questo giornale ci domandavamo a chi potesse
giovare questa insensata mossa decisa dal governo siriano di lanciare attacchi chimici contro la popolazione siriana
nella provincia di Idlib. Quello che appare come una sorta di suicidio
politico per il presidente in carica, in un momento in cui la guerra
volge in suo favore, ha molti lati oscuri e poche certezze.
Anzitutto, quale motivo avrebbe avuto il regime di Bashar Al Assad
per usare gas chimici sulla popolazione, dopo aver giurato di averli
consegnati «tutti alle Nazioni Unite» nel gennaio 2014, dopo la
famosa “Red Line” tracciata dal presidente Barack Obama e ben sapendo
che le conseguenze di un simile gesto avrebbero provocato la reazione
internazionale?
Le ragioni di Assad
Si può sostenere, come fa oggi mercoledì 5 aprile il ministero della
Difesa russo – evidentemente imbarazzato dal caso – che il bombardamento
dei jet siriani era di tipo convenzionale e che le loro bombe hanno in
realtà colpito un deposito dove i ribelli nascondevano armi chimiche in
loro possesso, probabilmente trafugate da Aleppo. La nube tossica si
sarebbe così sprigionata dal deposito e colpito i civili. I dubbi
restano, legittimati dal fatto che gli attacchi chimici di solito fanno
danni ben peggiori (ad Al Halabja, in Iraq, il 16 marzo 1988 il gas Sarin
uccise 5mila persone e non 70, mentre l’attacco del 21 agosto 2013 nei
sobborghi di Damasco fece tra le 600 e le 1.400 vittime).
(Il cimitero di Al Halabja dove sono sepolte le vittime dell’attacco chimico del 1998)
Oppure, si può sostenere che Assad abbia deciso di gasare la
popolazione per concludere anzitempo una delle battaglie più importanti
per il futuro della Siria occidentale: quella per il controllo di Idlib,
dove sono confluite le ultime milizie ribelli sfollate da Aleppo e dove
si trova Tahrir Al Sham, l’alleanza jihadista legata ad Al Qaeda che ha
di fatto il vero controllo delle operazioni militari. Presa Idlib,
infatti, la guerra sarà pressoché vinta o comunque Damasco avrà un
vantaggio indiscutibile. Consapevole di avere dalla sua parte Mosca e
contando sul placet americano (Trump, al contrario di Obama, non ha
ancora chiesto la sua testa), ritiene forse che la sua dimostrazione di
forza resterà impunita e non avrà conseguenze serie per lui (proprio
come Al Halabja per Saddam).
(Il presidente siriano Bashar Assad)
Chi vuole proseguire la guerra?
Ma c’è anche un’altra possibilità. E cioè che l’attacco sia avvenuto
scientemente per costringere le parti in lotta a proseguire la guerra
senza sosta. Ci sono soltanto due soggetti internazionali ai quali
conviene la fine delle ostilità: uno è Mosca, l’altro Washington. Il
Cremlino ha infatti raggiunto tutti gli obiettivi che si prefiggeva,
cioè assicurarsi il controllo della fascia costiera della Siria per
poter avere finalmente quell’accesso ai mari caldi che sognarono già gli
zar di Russia. Nella provincia di Latakia, infatti, Mosca ha installato
una base aerea militare e un porto per la sua marina, dai quali non si
muoverà mai più.
Washington, invece, ha interesse a concordare una pace che certifichi
la sconfitta delle milizie jihadiste – Stato Islamico in primis – per
ritrovare il prestigio perduto durante l’Amministrazione Obama, e che
favorisca una soluzione politica federativa all’interno della quale sarà
più facile muoversi, stringere accordi energetici, fornire armi e
sistemi di sicurezza. In una parola, attuare un divide et impera che dia l’impressione del peso di Washington anche a ovest dell’Iraq.
Il punto di vista della Turchia
A tutti gli altri, invece, non conviene che finisca la guerra. E
questo vale anzitutto per il presidente Bashar Al Assad, che teme di
essere sacrificato sull’altare della pace proprio dai suoi salvatori
russi. I quali ragionevolmente, in un ipotetico tavolo della pace, non
avrebbero troppi problemi a concordare un’uscita di scena del rais
siriano per ottenere un accordo duraturo, a patto che si assicuri loro
il controllo di Latakia.
Non deve sfuggire, però, che l’attacco chimico avviene a meno di una
settimana dalle dichiarazioni del segretario di stato americano, Rex
Tillerson che nel corso di una visita in Turchia ha dichiarato che la
rimozione di Assad non è più una priorità per gli americani e che, per
quanto li riguarda, potrebbe anche restare al suo posto dopo la guerra.
Chi, invece, ha un interesse preciso alla dipartita di Assad e alla
sconfitta del governo di Damasco è la Turchia. Ankara non ha ottenuto
niente da questa guerra e, anzi, ha peggiorato la propria situazione
interna ed esterna: ha patito e patisce tuttora il terrorismo in casa
ma, soprattutto, ha visto gli odiati curdi “circondare” i suoi confini e
prendere il controllo di ampie porzioni di territorio tanto in Iraq
quanto in Siria, preludio della nascita di uno stato autonomo. Il che è
considerato da Ankara una minaccia alla propria esistenza. La strategia
di Ankara, che voleva ergersi a protettore dei sunniti in Siria e Iraq, è
insomma fallita miseramente e la permanenza degli Assad al potere
sarebbe la pietra tombale alle sue ambizioni di controllare anche solo
una parte residuale dei territori sunniti e turcomanni occupati dai
ribelli durante il conflitto.
(Soldati turchi sorvegliano le alture di Kilis, al confine con la Siria)
L’interesse dell’Iran
E poi c’è l’Iran. Neanche gli ayatollah hanno ottenuto, per il
momento, quanto speravano. Il prezzo pagato dagli Hezbollah libanesi, la
longa manus di Teheran in Siria, ad esempio è stato altissimo.
Avendo preso parte attiva ai combattimenti ma subito perdite
significative, si sono indeboliti senza ottenere in cambio una
contropartita reale, se non nella disponibilità di villaggi e territori
anche in Siria, dove contadini e mafie locali alle loro dipendenze
possono ampliare l’industria e il traffico della droga. Che a sua volta
serviranno a finanziare le loro nuove imprese politiche e militari.
Un po’ scarso come risultato, visto che nel frattempo Israele ha
inflitto loro perdite significative, compiendo attacchi aerei mirati e
cadenzati per evitare che Hezbollah ottenga vantaggi militari o entri in
possesso proprio delle armi chimiche che non dovrebbero più essere in
circolazione (su questo, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor
Lieberman, è stato chiaro quando a dicembre 2016 ha affermato che la
Siria nei propri arsenali nasconde ancora armi chimiche).
(Mosca, 28 marzo 2017: l’incontro tra Vladimir Putin e Hassan Rouhani)
Ma, soprattutto, Teheran puntava a una vittoria delle forze sciite
chiara e senza l’aiuto di Mosca, un alleato ingombrante e focalizzato
solo a garantirsi il proprio spazio vitale, per poter dettare legge
nella regione. L’Iran, invece, al momento non ha mano libera né in Siria
né in Iraq, paese sul quale è più determinato ad assicurarsi
un’influenza crescente per ragioni di continuità territoriale e per il
ruolo politico (il governo è sciita), sociale (la popolazione sciita è
la maggioranza) ed economico (l’Iraq è una potenza energetica il cui
suolo è ricchissimo di idrocarburi) che Baghdad esercita nella regione.
L’Iran, inoltre, è a un passante importante della sua storia
politica. Le elezioni presidenziali del prossimo maggio, in tal senso,
saranno uno specchio importante per capire verso dove il paese degli
ayatollah si sta dirigendo. Se vincerà la continuità, Hassan Rouhani
resterà al suo posto e potrà proseguire il disegno “riformatore”
tracciato a partire dal 2013. Una battuta d’arresto, invece, segnerà un
cambio di passo nei confronti della comunità internazionale e degli
Stati Uniti in primis.
Il silenzio prevedibile dell’ONU
Oggi è prevista alle ore 16 italiane una riunione urgente del
Consiglio di Sicurezza Onu che, con ogni probabilità, non deciderà
niente in ragione del fatto che in uno di quei seggi siede Mosca, che
opporrà il veto a qualsiasi decisione non condivida. L’attacco chimico
c’è stato ed è un crimine di guerra. Ma il vero crimine di guerra in
questa triste e lunga storia è lasciare che la guerra prosegua.
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