Meno di due settimane or sono Roma sembrava pronta ad assumere il
ruolo guida di una missione di stabilizzazione della Libia che avrebbe
avuto l’imprimatur dell’Onu e il placet degli alleati statunitensi ed
europei.
Da alcuni giorni però non si contano le dichiarazioni ufficiali dei
massimi vertici governativi e istituzionali che negano ogni ipotesi di
intervento militare sulla ex “quarta sponda”, definito oggi “un’
avventura militare” assimilata addirittura allo “sbarco in Normandia”.
E’ vero che l’Italia ha sempre respinto le richieste di Washington
per un impegno bellico contro lo Stato Islamico (in Iraq come in Libia)
ma da molti mesi il ministro Paolo Gentiloni non faceva che ripetere la
pretesa italiana di guidare la missione internazionale in Libia.
Sono
molte le ragioni che hanno indotto il governo italiano a un repentino
dietro-front, forse solo in attesa di circostanze più favorevoli, anche
se è apparso quanto meno goffo il tentativo dei vertici governativi e
militari di attribuire ai giornalisti “irresponsabili accelerazioni” e
la responsabilità di aver dato per imminente l’avvio di una missione
militare che, peraltro, aveva già persino il nome: Libyan International
Assistance Mission (LIAM),
Innanzitutto il governo si è reso (finalmente) conto che l’esecutivo
di unità nazionale libico è abortito prima ancora di nascere. Non ha
ancora ottenuto la fiducia del parlamento di Tobruk e le milizie
islamiste che controllano Tripoli non intendono farlo insediare nella
capitale. Questo significa il fallimento della debole e ben poco
credibile mediazione dell’Onu.
Se
anche dovesse in futuro ottenere un riconoscimento anche simbolico,
l’esecutivo di Fayez al-Sarraj non avrà mai la credibilità necessario a
chiedere un intervento internazionale.
Che peraltro nessuna fazione libica vuole dal momento che sia Tobruk
che Tripoli chiedono armi, addestramento e appoggio aereo per combattere
lo Stato Islamico ma non truppe straniere sul terreno.
Alcune fonti evidenziano inoltre che il supporto militare segreto (ma
rivelato da molti media) fornito da Francia, Gran Bretagna ed Egitto
alle truppe di Tobruk e la presenza di forze speciali o contractors
anglo-americani in appoggio alle milizie di Misurata hanno rafforzato
gli schieramenti tribali favorendo l’emarginazione del nuovo governo.
Così i nostri “alleati” cercano di tagliare fuori l’Italia, che ha
puntato tutto su al-Sarraj, dal futuro della Libia.
Il
limite di non condurre azioni belliche contro lo Stato Islamico
rafforza il rischio di emarginazione dell’Italia specie ora che le
solite indiscrezioni dei media statunitensi rivelano i piani del
Pentagono per condurre una campagna aerea contro circa 40 obbiettivi
dell’IS in Libia.
Una riedizione ad ancor più bassa intensità delle blande operazioni
della Coalizione in Iraq e Siria. Blitz che sul fronte libico potrebbero
mettere imbarazzo Roma se ci fosse la richiesta di utilizzare basi
italiane per jet e droni.
Le estenuanti (e umilianti) pressioni esercitate nelle ultime
settimane dagli Stati Uniti per indurre l’Italia ad assumere un ruolo
bellico non solo non hanno dato risultati apprezzabili ma hanno toccato
il nervo scoperto della nostra limitata sovranità nazionale inducendo il
governo Renzi a mettersi sulla difensiva.
Oggi
sembra essere più chiara la percezione che schierare truppe in Libia
significa soprattutto esporle a miliziani e kamikaze jihadisti con la
consapevolezza che statunitensi, britannici e francesi continueranno a
fare la loro guerra parallela tesa a sostenere fazioni da cui si
aspettano in seguito ritorni economici o strategici.
Anche la pessima figura rimediata nella vicenda dei quattro ostaggi
della Bonatti ha contribuito a raffreddare gli ardori interventisti.
Soprattutto nell’indegno tira e molla sulla consegna, cinque giorni
dopo la loro morte, delle salme di Salvatore Failla e Fausto Piano, sui
quali era già stata effettuata l’autopsia.
Una vicenda in cui il governo di Tripoli ha umiliato l’Italia,
vendicandosi forse per il mancato riconoscimento che da tempo chiede a
Roma, ma che indica come la nostra influenza e presenza in termini
d’intelligence sia ormai al lumicino.
Se
poi a questa serie di elementi si aggiungono sondaggi che, a pochi mesi
dalle elezioni amministrative, rivelano come 8 italiani su 10 siano
contrari a un impegno militare in Libia, ben si comprendono le ragioni
della profonda “rivalutazione” della carte che l’Italia è in grado di
giocare nella crisi libica.
Foto: Stato Islamico, Ansa, AP, AFP e Reuters
di Gianandrea Gaiani - 13 marzo 2016
Gianandrea Gaiani
Giornalista
nato nel 1963 a Bologna, dove si è laureato in Storia Contemporanea,
dal 1988 ha collaborato con numerose testate occupandosi di analisi
storico-strategiche, studio dei conflitti e reportages dai teatri di
guerra. Attualmente collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il
Foglio, Libero, Il Corriere del Ticino e con il settimanale Panorama sul
sito del quale cura il blog “War Games”. Dal febbraio 2000 è direttore
responsabile di Analisi Difesa. Ha scritto Iraq Afghanistan - Guerre di
pace italiane.
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