Provate a chiedere a un bambino se vuol giocare alle bambole. Nove
volte su dieci risponderà di no e si ritrarrà scandalizzato. Provate a
domandargli se ha una fidanzatina : spesso rispondono con un espressione
di disgusto : « Io non ho una fidanzatina, a me le bambine non
piacciono », urlerà. E provate a chiedere a una bambina se ama giocare
al calcio, se desidera fare giochi di guerra, se vuole azzuffarsi. Vi
guarderà con un’aria sconsolata. E se le domandate se preferisce
trascorrere le vacanze estive con una femmina o con il figlio della
vostra amica, nove volte su dieci non avrà dubbi : meglio, molto meglio
l’amica.
E’ così da sempre, eppure domani potrebbe non essere più così. Già, perché nel mondo occidentale si diffonde sempre di più la cosiddetta ideologia gender (in italiano identità di genere) che in nome di una causa apparentemente sacrosanta, quella della lotta alla discriminazione sessuale, impone norme di comportamento ed educative estreme. Come narrato nei giorni scorsi dai giornali, in alcune scuole italiane, ad esempio, i bambini vengono costretti a travestirsi da femmine e a giocare alla mamma, mentre alle bambine vengono imposti giochi di ruolo decisamente maschili. Nel frattempo si impongono modelli che tendono a sradicare identità centrali insite nella natura umana. In certi Comuni italiani ed europei – ma fortunatamente non dappertutto, ad esempio non ancora in Svizzera – quando si iscrive il proprio figlio a scuola o all’anagrafe le autorità non richiedono più di indicare padre e madre, bensì genitore 1 e genitore 2. E alcuni Paesi stanno anche abolendo la voce « sesso » sui documenti da sostituire con quella « genere » ; il tutto in difesa dei diritti degli omosessuali.
E qui dobbiamo intenderci : chi scrive sostiene da sempre l’emancipazione degli omosessuali, non solo in teoria ma – ed è l’aspetto più importante – nella quotidianità. In famiglia abbiamo amici gay e lesbiche e mai sul lavoro ho giudicato una persona considerando le sue tendenze sessuali, rimandando al mittente qualunque pettegolezzo. Non mi importa se un collaboratore è omosessuale per la semplice ragione che non sono affari miei.
Ritengo che un vero Stato liberale debba permettere a ogni cittadino di vivere in libertà e nella tutela della privacy la propria sessualità e sono lieto nel poter dire: ormai ci siamo. Gli omosessuali non devono più nascondersi e men che meno vergognarsi. Una vittoria civile.
Il problema, però, è che una battaglia giustissima e nei suoi tratti salienti conclusa, si sta trasformando in qualcosa di ben diverso; assume dimensioni inaspettate e per molti versi ingiustificate, al punto che talvolta si ha l’impressione che a essere diversi siano gli eterosessuali e che avere una famiglia normale sia quasi scandaloso. Mi riferisco, lo avete capito, alle rivendicazioni più oltranziste e all’isteria quasi intimidatoria che accompagna certe pretese e che recentemente ha indotto gli stilisti Dolce e Gabbana a protestare pubblicamente. Il loro « Basta ! » è risuonato alto, ma pur essendo omosessuali sono stati messi alla gogna mediatica in nome del politicamente corretto.
E’ così da sempre, eppure domani potrebbe non essere più così. Già, perché nel mondo occidentale si diffonde sempre di più la cosiddetta ideologia gender (in italiano identità di genere) che in nome di una causa apparentemente sacrosanta, quella della lotta alla discriminazione sessuale, impone norme di comportamento ed educative estreme. Come narrato nei giorni scorsi dai giornali, in alcune scuole italiane, ad esempio, i bambini vengono costretti a travestirsi da femmine e a giocare alla mamma, mentre alle bambine vengono imposti giochi di ruolo decisamente maschili. Nel frattempo si impongono modelli che tendono a sradicare identità centrali insite nella natura umana. In certi Comuni italiani ed europei – ma fortunatamente non dappertutto, ad esempio non ancora in Svizzera – quando si iscrive il proprio figlio a scuola o all’anagrafe le autorità non richiedono più di indicare padre e madre, bensì genitore 1 e genitore 2. E alcuni Paesi stanno anche abolendo la voce « sesso » sui documenti da sostituire con quella « genere » ; il tutto in difesa dei diritti degli omosessuali.
E qui dobbiamo intenderci : chi scrive sostiene da sempre l’emancipazione degli omosessuali, non solo in teoria ma – ed è l’aspetto più importante – nella quotidianità. In famiglia abbiamo amici gay e lesbiche e mai sul lavoro ho giudicato una persona considerando le sue tendenze sessuali, rimandando al mittente qualunque pettegolezzo. Non mi importa se un collaboratore è omosessuale per la semplice ragione che non sono affari miei.
Ritengo che un vero Stato liberale debba permettere a ogni cittadino di vivere in libertà e nella tutela della privacy la propria sessualità e sono lieto nel poter dire: ormai ci siamo. Gli omosessuali non devono più nascondersi e men che meno vergognarsi. Una vittoria civile.
Il problema, però, è che una battaglia giustissima e nei suoi tratti salienti conclusa, si sta trasformando in qualcosa di ben diverso; assume dimensioni inaspettate e per molti versi ingiustificate, al punto che talvolta si ha l’impressione che a essere diversi siano gli eterosessuali e che avere una famiglia normale sia quasi scandaloso. Mi riferisco, lo avete capito, alle rivendicazioni più oltranziste e all’isteria quasi intimidatoria che accompagna certe pretese e che recentemente ha indotto gli stilisti Dolce e Gabbana a protestare pubblicamente. Il loro « Basta ! » è risuonato alto, ma pur essendo omosessuali sono stati messi alla gogna mediatica in nome del politicamente corretto.
Il problema nel problema – e veniamo al punto – è che l’estremismo
progay viene usato come ariete mediatico e legislativo per propagare e
imporre l’ideologia gender. Ideata dallo psichiatra americano
John Money, sostiene che le differenze sessuali tra maschio e femmine
non sono naturali, biologiche, come peraltro avviene in tutto il mondo
animale, bensì culturali : dunque gli uomini sarebbero tali solo perché
educati da maschi e le donne sarebbero donne solo perché educate da
femmine. E che attraverso gli opportuni condizionamenti sociali, a
cominciare dall’educazione nelle scuole, accompagnato da un vero e
proprio bombardamento mediatico, si possa convincere chiunque a decidere a quale sesso appartenere o a vivere l’ambiguità sessuale come un fatto naturale.
E’ il ribaltamento del mondo: una battaglia a tutela della minoranza gay viene usata per tentare di sradicare l’identità sessuale naturale
della stragrande maggioranza delle persone e convincere le nuove
generazioni che ognuno può scegliere se diventare omosessuale o
bisessuale o transessale. Diciamola tutta : è un’aberrazione, che però
si afferma sempre di più, agendo su più livelli. Il potere di emulazione
del mondo dello spettacolo e del cinema è noto. Pensate all’ambiguità
sessuale di Lady Gaga (che omosessuale non è ma si presenta come icona
trans) o della barbuta Conchita, ai messaggi reiterati dei film di
Hollywood o dei serial tv dove addirittura la Disney propone alcuni
classici in versione gay. Osservate il mondo della moda: si scelgono
sempre di più modelle androgine e modelli effeminati, al punto che
talvolta non si capisce più se a sfilare è un uomo o una donna. Non è un
caso che a Londra sia stato aperto pochi giorni fa il primo negozio
gender.
Ma ancor più inquietante è il fatto è che i casi italiani non sono
affatto isolati. Nelle scuole francesi è diventato obbligatorio un corso
di insegnamento per promuovere la libertà dei sessi e per combattere
l’omofobia che si propone di « sostituire categorie mentali come quella
di ‘sesso’ con il concetto di ‘genere’ che mostra come la differenze tra
uomo e donna non siano basate sulla natura ma siano prodotte
storicamente e replicate dalle condizioni sociali ». Corsi analoghi
vengono insegnati nelle scuole inglesi.
E’ una battaglia subdola perché, schermandosi dietro alle
rivendicazioni gay, inibisce un dibattito normale. Si impedisce alla
gente di capire cos’è l’ideologia gender, di interrogarsi e in un’ultima
analisi di decidere. Come dovrebbe accadere in democrazia.
di Marcello Foa - 23 marzo 2015
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