Che
i veri razzisti, oggi, non siano quelli che erano tali un tempo, ma che
le parti si siano rovesciate; e cioè che i veri razzisti, oggi, siano
gli “altri”, i “diversi”, i “lontani” (anche se non sono affatto
lontani, sono qui fra noi e ci stanno rapidamente sostituendo),
ormai chiunque possieda anche solo un minimo di lucidità e di onestà
intellettuale l’ha capito da un pezzo. Del resto, l’hanno capito pure i
bambini. Basta domandarlo a una maestra elementare, nelle nuove classi
piene di figli d’immigrati: è sufficiente che un bambino africano si
lamenti: Maestra, Giovanni mi da chiamato “sporco negro!”,
e subito il colpevole verrà adeguatamente redarguito, anche se non è
vero affatto che aveva detto una frase del genere. Ma tant’è, quando le minoranze scoprono la forza poderosa del ricatto morale, per la maggioranza è finita; e la sua fine sarà un suicidio.
Oggi
è diventato praticamente impossibile denunciare i cattivi comportamenti
degli stranieri che a centinaia di migliaia, a milioni, stanno
invadendo i nostri paesi e il nostro continente, stanno sommergendo le
nostre tradizioni e la nostra stessa civiltà sotto il peso della loro
capacità di espansione demografica. Siamo arrivati a un punto tale di auto-censura, che il papa non osa nemmeno nominare il “terrorismo islamico”,
per timore di offendere gli islamici; che maestre, preti e vescovi
cominciano a rinunciare ai segni visibili della identità cristiana ed
europea, il crocifisso, il presepio, i canti di Natale, per una forma
malintesa di “rispetto” verso gli stranieri; che i giornali non osano pubblicare la nazionalità di un delinquente,
di un rapinatore, di uno stupratore, per timore che dire la verità,
ossia che si tratta di un albanese, di un marocchino, di un nigeriano,
possa suonare come un atto d’intollerabile discriminazione, una
presunzione etnocentrica, se non proprio come una manifestazione di
razzismo bella e buona.
Un
buon esempio di questo razzismo alla rovescia, finalmente esplicito e
dichiarato, anzi, addirittura gridato, è offerto dal giornalista Paolo
Veronese, classe 1952, inviato speciale del padre di tutti i giornali
progressisti e politicamente corretti, dunque antirazzisti, La Repubblica; ecco cosa dichiara al termine del suo libro Africa. Reportages (Roma-Bari, Laterza, 1999, pp.173-174):
Un
giorno o l’altro bisognerà liberarsi di tanta correttezza politica, di
tanto perbenismo intellettuale, e osare dire come uno la pensa
veramente. No, gli uomini non sono tutti uguali; le razze esistono, e si
dividono in inferiori e superiori. E superiore a tutte è l’africana.
Prendete
uno di noi, cittadino di un qualsiasi paese europeo, con le sue
abitudini, le sue certezze, il negozio di alimentari sotto casa, la tv,
il riscaldamento, la metropolitana, la settimana bianca de le ferie
esotiche comprate all’agenzia di viaggi. Paracadutatelo in una città
africana, in una periferia di baracche, oppure in un villaggio lontano
da tutto. Non credo che reggerebbe a lungo a quella vita durissima.
Soccomberebbe presto. Gli africani, invece, tirano avanti e sono capaci,
nella loro miseria, nell’incertezza dell’oggi e del domani, di un
sorriso, di un gesto d’ospitalità, di un atto di solidarietà tirato
fuori – come nel miracolo [sic] di un prestigiatore – dal vuoto della
più totale privazione.
L’Africa
è un continente di sopravvissuti. Agli stenti, alle guerre, alle
angherie di un potente che pressoché ovunque arbitrario, vessatorio,
corrotto e concepisce se stesso come privilegio, mai come servizio. Alla
violenza, che è parte integrante della tradizione, ma anche l’unico
frutto della modernità che abbondi. Alla mancanza di garanzie, di
sicurezze, di autorità che non siano quelle del villaggio: gli anziani, i
capi, lo stregone. Sono, gli africani, un’umanità che ha fatto della
pazienza una virtù continentale, dell’umiltà la regola numero uno della
sopravvivenza, dello humour l’unica forma di svago, d’intrattenimento,
di distrazione. Nessuno come loro sa ridere di sé medesimo, dei potenti,
dei casi della vita. Sono, gli africani, i napoletani del mondo:
e, come questo, eccellono nell’arte di arrangiarsi, nel genio di
trovare espedienti che sono al tempo stesso soluzione ai problemi e
sberleffo a chi li ha creati. Se si potesse trasformare in prodotto
nazionale lordo la capacità che hanno gli africani di inventare,
riciclare, adattare se stessi e le cose, di superare gli ostacoli con
una soluzione trovata guardandosi attorno, allora sì che l’Africa
sarebbe ricca, ricchissima.
Ecco
finalmente che i veri razzisti gettano la maschera: complimenti per la
sincerità. Anche se poi, a ben guardare, è la solita sincerità di
facciata dei tanti intellettuali, e sedicenti tali, progressisti,
mondialisti, umanitaristi e buonisti: che cosa vuol dire, infatti, che un
giorno o l’altro bisognerà liberarsi di tanta correttezza politica, di
tanto perbenismo intellettuale, e osare dire come uno la pensa veramente?
No, lui sta già facendo; lo sta facendo e sa di poterlo fare, cioè, non
si sta affatto liberando della correttezza politica, altrimenti non
glielo lascerebbero fare, e non pubblicherebbe i suoi scritti su uno dei
due maggiori quotidiani nazionali, e con una delle maggiori case
editrici italiane, entrambi rigorosamente progressisti e devotamente
antifascisti; no: sta facendo esattamente il contrario. Infatti, quando dichiara, con tono di (finta) sfida e di (finto) coraggio: No,
gli uomini non sono tutti uguali; le razze esistono, e si dividono in
inferiori e superiori. E superiore a tutte è l’africana, non sta andando contro il politicamente corretto, ma sta proclamando il Nuovo Vangelo del Politicamente Corretto. Per convincersene, basta fare la controprova: immaginare che lui, o chiunque altro, dicano una frase di questo tipo: No,
gli uomini non sono tutti uguali; le razze esistono, e si dividono in
inferiori e superiori. E superiore a tutte è la razza bianca. Allora sì, che si scatenerebbe l’inferno!
Ci sarebbe una levata di scudi universale; pontificherebbero e si
straccerebbero le vesti tutti i Soloni del politicamente corretto; e il
poveretto avrebbe finito di scrivere articoli per i maggiori giornali, e
di pubblicare libri con le più prestigiose case editrici. Basta,
finito, chiuso per sempre. Come! Asserire che le razze non sono uguali, e
che la razza bianca è superiore a tutte quante! Questo sì, che sarebbe
un crimine. Scherziamo! Non siamo mica più ai tempi delle leggi razziali
fasciste, perdiana! Invece, dire che le razze esistono e che la razza
africana è superiore a tutte, questo sì che va bene, questo sì che piace
a tutto l’establishment politicamente corretto, progressista e
di sinistra, terzomondista e “illuminato”. Sono sempre uguali, questi
intellettuali progressisti a un tanto il chilo: sfidano là dove non c’è
nulla da rischiare, e si cacciano la coda tra le gambe quando, invece,
il rischio c’è davvero, perché si tratta di andare contro i poteri forti
e contro la cultura dominante.
Quanto
al merito dell’affermazione sulla superiorità della razza africana, li
conosciamo, questi signori progressisti e paladini delle Giuste Cause,
purché di sinistra: nipotini orfani di Rousseau, pieni di nostalgia per
il Buon Selvaggio, s’innamorano a prima vista di tutti quei popoli, di
tutte quelle società, di tutte quelle usanze, che sono agli antipodi
della nostra (e loro, fino a prova contraria); beninteso, non disdegnano
i vantaggi e i piccoli (o meno piccoli) privilegi che quest’ultima
distribuisce con una certa generosità: per esempio, quello di essere
discretamente pagati per distribuire perle di saggezza da Baci Perugina
sotto forma di reportage giornalistici; ma sì, è bello lodare il Buon
Selvaggio, e disprezzare il negozio di alimentari sotto casa, e il
riscaldamento per l’inverno, quando si sa di avere l’una e l’altra cosa.
Predicatori della “purezza” indigena e primitiva, con il
cellulare e il computer sempre a portata di mano; laudatori della
Sobrietà e della Solidarietà dei negri, degli asiatici, degli indios,
degli aborigeni, degli eschimesi, di tutti, tranne che degli infami
europei, due volte infami se cristiani. Giornalisti e scrittori fatti con lo stampino, vengono fuori in serie dalle fabbriche del Poltically Correct, come le matrjoske;
e quanto più snocciolano banalità e insulsaggini melense, tanto più si
sentono gli araldi della Saggezza e i Profeti del Mondo Nuovo. In
verità, c’è solo un gradino che giace più in basso della omologazione
conformista politicamente corretta: quello che si scende quando ci si
atteggia a contestatori del Sistema, a ribelli contro l’Autorità, ma
intanto si fa e si dice proprio quel che il Sistema vuole sentirsi dire,
e – cosa non certo disprezzabile - si continua a mangiare alla sua
greppia e ad avvalersi di tutti i suoi agganci le sue omologazioni. Sono proprio i figli e i nipoti legittimi del ’68:
che bello, che cuccagna, che goduria giocare alla rivoluzione, ma coi
soldi di papà; dir peste e corna della bieca scuola “borghese”, ma
diplomarsi a forza di sei politico, benché ignoranti come capre.
Quando uno, uno soli di questi signorini innamorati dell’Altro, avrà il fegato di dire: No, gli uomini non sono tutti uguali; le razze esistono, e si dividono in inferiori e superiori, e la bianca è superiore a tutte,
allora, e allora soltanto, potremo dire d’aver trovato uno che ha il
coraggio di andare controcorrente; quando ce ne sarà uno solo che oserà
dire che gli africani sono essi stessi, almeno in parte, i responsabili
della loro arretratezza, della loro miseria, delle loro sofferenze; che i
mau mau non furono eroi dell’indipendenza del Kenya, ma atroci
assassini e che ammazzarono migliaia di africani e una cinquantina di
bianchi, metà dei quali civili indifesi, fra cui donne e bambini; che i
popoli africani si sono consegnati in ostaggio, per secoli e millenni,
al potere tirannico di stregoni malvagi e spietati, subendo il terrore
da essi imposto; che dittatori da Grand Guignol, come Bokassa e Idi Amin
Dada, furono partoriti dai loro popoli e non piovvero giù da Marte
(anche se, indubbiamente, le ex potenze coloniali vi ebbero lo zampino);
e che la tratta degli schiavi, sia sulla costa occidentale dell’Africa,
dove agivano i commercianti bianchi, sia su quella orientale, dove
spadroneggiavano i mercanti arabi, fu resa possibile dalla attiva
collaborazione degli stessi africani, continuamente invischiati nelle
loro faide tribali, senza pietà e senza misericordia per nessuno: ecco,
quando ciò accadrà, allora diremo che costui ha saputo spezzare i
vincoli ferrei del pensiero Politicamente Corretto.
A
chi è davvero libero dal ricatto del perbenismo intellettuale, non
costa alcuna fatica ammettere che la civiltà europea ha le sue colpe,
accanto ai suoi grandissimi meriti: solo un imbecille può pensare che
tutto il bene stia da una sola parte, e tutto il male dall’altra. Quel che sbagliano i signorini dell’establishment culturale di sinistra, è il bersaglio con cui se la prendono: non dovrebbero avercela con la civiltà europea in se stessa,
che li ha partoriti, ha insegnato loro valori universali e ha offerto
loro la possibilità di cogliere occasioni che mai, in Africa, in Asia o
in America Latina – nei paradisi del Buon Selvaggio – sarebbero state
offerte loro. Ciò di cui l’europeo si dovrebbe vergognare non è né il
Vangelo, né quel che dal Vangelo è scaturito: Dante e San Tommaso, le
cattedrali e i teatri, Bach e Van Gogh (e senza dimenticare quel che
viene prima del Vangelo, ossia le radici greche e romane); ma è
piuttosto quella degenerazione, quella malattia che si chiama modernità. Si
può, si deve essere antimoderni senza essere anticristiani e
antieuropei; senza odiare e disprezzare le propri radici, ma, anzi,
amandole e ritornando ad esse. L’errore, macroscopico e in
perfetta mala fede, dei signorini progressisti, è di buttar via il
neonato insieme ai pannolini sporchi: cioè il pensare che, se i
crimini della modernità vengono dalla nostra storia, allora tutta la
nostra storia deve essere buttata via, e noi dobbiamo andare a lezione
dagli stregoni africani, o dai mau mau, o dal primo Buon Selvaggio (che
magari è un tantino cattivello, ma questo non lo si deve dire in giro)
nel quale ci capita d‘imbatterci. E se invece del Buon Selvaggio è nel
Buon Rivoluzionario che s’imbattono, come diceva Carlos Rangel, allora
tanto meglio: al mito della umanità buona e primitiva, quello di
Rousseau, si sommerà il fascino romantico della lotta per la libertà e
la giustizia, quello di Marx. La sintesi perfetta è data da Ernesto
“Che” Guevara, il cui ritratto, non a caso, ha campeggiato sul muro
della cameretta di migliaia e migliaia di codesti signorini, al posto di
Gesù Cristo che campeggiava nelle stanze dei loro nonni; di questi
“compagni” ed ex compagni di sessantottesca memoria, i quali, dopo aver
mostrato di non aver capito niente del mondo che stava venendo avanti, e
aver fatto di tutto, ma proprio di tutto, per schierarsi, fino
all’ultimo, dalla parte sbagliata, ora vorrebbero, dall’alto della loro
Scienza infallibile, istruirci ed insegnarci, proprio come allora, col
ditino alzato, col ditino accusatorio sempre puntato contro qualcuno,
che nella loro giovinezza indicava al pubblico ludibrio il miserabile
“borghese”, e oggi indica il miserabile “razzista”: cioè chi non accetta
il dogma della superiorità della razza africana. In fondo, è abbastanza semplice. Questi
signori si portano dentro un tale grumo d’infelicità e disprezzo di sé,
che, inconsciamente, desiderano morire. Vorrebbero, però, morire in
buona compagnia: vorrebbero che tutto il nostro continente si suicidasse
insieme a loro. Nel modo più pacifico e indolore: smettendo di
far figli, e accogliendo milioni d’immigrati africani e asiatici, i
quali, di figli, ne fanno più che a sufficienza. Ma hanno fatto male i
loro conti. Può darsi che noi non siamo d’accordo di suicidarci, tanto
meno a quel modo. Per intanto, abbiamo scoperto il loro gioco; e abbiamo
visto che non è pulito. Perciò, d’ora in poi, staremo bene attenti…
Già pubblicato su il Corriere delle Regioni il 12 Gennaio 2017
di Francesco Lamendola - Pubblicato il 14 Ottobre 2017
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