L’avvicinarsi
della scadenza per il deposito di liste, candidature e simboli per le
prossime elezioni ha fatto venir fuori, come funghi dopo la pioggia di
fine estate, nuove formazioni (chiamiamole così) con sigle strane, con
stranissime denominazioni e simboli, che sembrano la marca del cibo per i
gatti.
Formule vuote ed insulse, nelle quali l’unico elemento di verità è
l’accuratezza nell’evitare la parola partito. Infatti non sono
“partiti”, espressione di una parte della pubblica opinione. Gli unici
che si definiscono un partito sono quelli del Pd, “Partito Democratico”,
che sono meno partito e meno democratici degli altri. È finita l’epoca
dei partiti “ideologici” e dei partiti in genere. Ed è finita l’epoca
dello scimmiottamento delle “primarie” americane, utilizzate da noi
sempre come una mezza truffa. È finita pure l’epoca della “selezione
telematica” dei candidati della premiata ditta “Grillo, Casaleggio e
Compagni”.
Nei simboli elettorali non figura più il marchio dell’imbecillità,
l’indicazione del candidato Presidente del Consiglio, esilarante,
sempre, ma soprattutto nei simboli di piccolissima formazione:
“Cianchettini Presidente”, “Ingroia Presidente”. La disavventura di
quest’ultimo credo sia stata determinante nel far eliminare, se non
altro per motivi scaramantici, quella idiozia.
È accaduto e sta accadendo un singolare fenomeno. I vari partiti (si
fa per dire, chiamateli come vi pare: consorterie, congreghe, società
anonime, confraternite, clientele) hanno cercato di farsi una legge
elettorale su loro misura ed a loro profitto. Né è venuto fuori un
pasticcio della malora, che una percentuale di non meno del 97 per cento
degli italiani non sa come funziona e non meno del 95 per cento non lo
saprà nemmeno dopo aver votato. Una legge a misura dei partiti (che non
c’erano e non ci sono). Che ha già ottenuto l’inverso di quel proposito
che l’ha ispirata: ha fatto nascere “partiti” (che però non ci sono e
non ci saranno) a misura della legge. Pasticcio crea pasticcio. È ancora
presto per fare un quadro completo delle candidature più o meno
fasulle, più o meno velleitarie.
Intanto pare che possano darsi per certo quelle di almeno tre ex
magistrati: Grasso, Ingroia e (udite! udite!) Di Pietro che la nuova
legge elettorale ha sottratto ad un tempestivo pensionamento. Lui non
avrebbe voluto, ma pare che (chi mai?) lo abbiano costretto a candidarsi
“come indipendente” (che nel pasticcio in vigore non si sa che
significa). Ma, in fatto di magistrati, non finisce qui. Si candideranno
altri che, diversamente dai tre sullodati, sono in servizio (si fa per
dire: sono quelli che sono già da tempo in campagna elettorale). È
improbabile che Di Matteo non cerchi di mettere a frutto la sua
collezione di cittadinanze onorarie, frutto della cosiddetta condanna (a
morte) con una bella candidatura. Ma ha da fare con la pagliacciata del
processo sulla Trattativa. Punta, quindi a fare direttamente il
ministro. Ha già dichiarato che lui non si spreca per un piatto, anche
se ben condito, di lenticchie. E, poi, ci saranno le candidature per le
elezioni regionali. Si scrive sui giornali della candidatura alla
Presidenza della super regione Lombardia, ma assai di più si parla in
Calabria di una candidatura togata. Naturalmente antimafia. E un via vai
di magistrati in visita pastorale prepara il terreno ad un Collega. Ci
sarebbe da parlare di incompatibilità.
Ma è argomento fuori moda. Adesso si parla di “impresentabilità”,
neologismo metagiuridico caro a Rosy Bindi. Però sappiamo che le sue
liste di (alcuni degli) “impresentabili” le tira fuori a presentazione
avvenuta, anzi, alla vigilia del voto. Pasticcio crea pasticcio. E
pasticcioni per tendenza e mestiere creano grossi pasticci. Ridicoli e
pericolosi. Ci abbiamo fatto l’abitudine.
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