Su ilLibraio.it Antonella Mascali ricorda ai ragazzi
di oggi i giorni della strage di Capaci. Sono passati 25 anni da quelle
settimane terribili. Cos'è cambiato?
Se penso a Giovanni Falcone,
la mia memoria va prima di tutto al 12 marzo 1992. Ero una studentessa e
una giornalista in erba. Quel giorno si viene a sapere che a Palermo
era stato ucciso un potente politico di quel tempo, il democristiano Salvo Lima, il proconsole di Giulio Andreotti
in Sicilia. L’uomo dai grandi legami mafiosi, come Andreotti, il fu
sette volte presidente del Consiglio. Due mesi prima la Cassazione aveva
confermato definitivamente le condanne ai mafiosi finiti sul banco
degli imputati del maxiprocesso voluto da Falcone e Paolo Borsellino.
Lima, come Andreotti, agli occhi di Cosa nostra non avevano garantito
l’impunità.
Quel maxiprocesso, celebrato a Palermo tra il 1986 e il 1987, ha segnato per sempre la storia delle indagini antimafia, ci ha fatto sapere come era struttura “la Cosa Nostra”. Quel 12 marzo 1992 presi un aereo per Palermo, inviata da Radio Popolare di Milano. Arrivai in serata, un po’ spaesata: non vedevo un taxi, un bus, non sapevo come fare per arrivare in città. E chiesi informazioni a un giovane: “Sei una giornalista?”, “Sì, risposi, come lo sa?”. “La puzza dei giornalisti la sento da lontano”, disse facendo un gran sorriso. E io: “Allora lei è un poliziotto”. “Sono il caposcorta di Giovanni Falcone”. “Ah, mi raccomando, se mi avvicino al dottor Falcone non mi allontani, la prego”. “Ora che ti ho identificata, puoi stare tranquilla”. Il poliziotto era Antonio Montinaro. Due mesi e 11 giorni dopo sarebbe morto insieme al magistrato, a Francesca Morvillo, anche lei magistrato e moglie di Falcone e agli agenti di scorta Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Il 23 maggio 1992, ero in redazione, di turno per la conduzione del giornaleradio delle 19.30. Una giornata che sembrava come le altre, mai mi sarei aspettata cosa sarebbe successo. Poco dopo le 18, arrivò un’agenzia Ansa che dava la notizia dell’attentato a Capaci. Rimasi senza fiato per un attimo. Stordita. Andai subito in onda a raccontare le prime, frammentarie notizie. Falcone era ancora vivo, in gravissime condizioni. Ma, come si sa, è morto poco dopo insieme alla sua Francesca, agli agenti di scorta. E’ sopravvissuto solo l’autista, Giuseppe Costanza, perché Falcone aveva voluto mettersi alla guida e l’autista si andò a sedere sul sedile posteriore. Vivo, ma ferito nell’anima per sempre. Presi l’ultimo aereo per Palermo. A bordo c’era Ilda Boccassini, allora pm di Milano, oggi procuratore aggiunto dello stesso ufficio. Era collega e amica di Falcone. Non dimenticherò mai il suo volto impietrito dal dolore. Dopo la strage di Capaci si farà trasferire a Caltanissetta per cercare i colpevoli. Un altro flashback: il cratere, enorme, che vidi a Capaci. Era il segno visibile della morte che aveva seminato il tritolo messo lì dai mafiosi per uccidere l’uomo senza il quale, insieme a pochissimi altri magistrati del tempo, non sapremmo nulla della mafia.
Ma solo i boss di Cosa nostra hanno voluto la morte di Falcone? La verità processuale ha indicato solo mafiosi: 37 tra mandanti ed esecutori, di cui 24 all’ergastolo, ma i misteri rimangono. L’ultima rivelazione risale a 4 anni fa, quando il pentito di mafia Gioacchino La Barbera raccontò al pm della procura nazionale antimafia, Gianfranco Donadio che durante l’organizzazione dell’attentato, con i boss mafiosi “c’era un uomo sconosciuto che parlava a bassa voce”. A Capaci fu trovato anche un bigliettino con un numero di cellulare e un indirizzo corrispondete a una sede di copertura del Sisde. L’artificiere della strage fu Pietro Rampulla, mafioso ed ex estremista di destra. Falcone si era trasferito a Roma per lavorare al ministero della Giustizia. Era stato costretto a lasciare la procura di Palermo dopo anni di tribolazioni, di isolamento. Dopo la sua morte Giovanni Falcone è diventato un eroe per tutti, ma in vita è stato ostacolato nelle indagini, accusato di tenere prove a carico di politici nei cassetti, umiliato dal Csm che nel 1988 gli preferì Antonino Meli alla nomina di capo del pool antimafia di cui era stato un protagonista assoluto.
Vorrei chiudere questo ricordo di Falcone con le parole di Paolo Borsellino, pronunciate il primo giugno del ’92, 9 giorni dopo la strage di Capaci, 49 giorni prima che anche lui trovasse la morte insieme a 5 poliziotti di scorta: “Io voglio decisamente credere – aveva detto Borsellino – me lo impongo di crederci ,che la morte di Falcone sia un fatto così dirompente, così drammatico, che bandendo ogni sofismo, ogni ipocrisia, ogni situazione di compromesso, il potere politico riesca ad avere la forza di prendere una serie di decisioni ordinarie ma drastiche. Perché i magistrati non debbano sempre lavorare quasi nonostante le norme. Alcune di esse sembrano fatte a posta soltanto per rendere difficile il loro lavoro. Se non si pone il rimedio tra questa dicotomia, tra molto che si conosce e poco che si riesce a condannare, verrebbe quasi voglia di alzare le braccia”. Da allora sono passati 25 anni. E’ cambiato qualcosa? Non molto, ahimè.
L’AUTRICE – Antonella Mascali, giornalista de Il Fatto quotidiano, ha mosso i primi passi nel giornalismo quando era ancora al ginnasio, alla redazione de I Siciliani, il mensile fondato a Catania da Pippo Fava, ucciso dalla mafia. Si è trasferita a Milano, nonostante l’amore per il mare, si è laureata in Scienze politiche, con indirizzo giuridico, all’Università Statale con il professor Nando dalla Chiesa con una tesi sperimentale: “Le associazioni di interesse: il caso del movimento antiracket di Capo D’Orlando. E’ diventata giornalista professionista a Radio Popolare di Milano. Come inviata a Palermo, ancora studentessa, ha seguito i fatti più tragici degli anni Novanta: l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi, le stragi di Capaci e via D’Amelio. Tra i processi più importanti della storia recente d’Italia ha seguito, a Palermo, quelli a Giulio Andreotti, Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro. A Milano, quelli a Silvio Berlusconi, Cesare Previti e David Mills. Nel 2007 ha vinto il Premio cronista Guido Vergani. Con il libro Lotta civile (Chiarelettere 2009), ha vinto il premio Com&Te Cava Costa d’Amalfi 2009. Nel 2010 sempre per Chiareleterre ha pubblicato insieme a Peter Gomez Il regalo di Berlusconi. Nel 2012 per Chiarelettere ha curato il libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino.
Quel maxiprocesso, celebrato a Palermo tra il 1986 e il 1987, ha segnato per sempre la storia delle indagini antimafia, ci ha fatto sapere come era struttura “la Cosa Nostra”. Quel 12 marzo 1992 presi un aereo per Palermo, inviata da Radio Popolare di Milano. Arrivai in serata, un po’ spaesata: non vedevo un taxi, un bus, non sapevo come fare per arrivare in città. E chiesi informazioni a un giovane: “Sei una giornalista?”, “Sì, risposi, come lo sa?”. “La puzza dei giornalisti la sento da lontano”, disse facendo un gran sorriso. E io: “Allora lei è un poliziotto”. “Sono il caposcorta di Giovanni Falcone”. “Ah, mi raccomando, se mi avvicino al dottor Falcone non mi allontani, la prego”. “Ora che ti ho identificata, puoi stare tranquilla”. Il poliziotto era Antonio Montinaro. Due mesi e 11 giorni dopo sarebbe morto insieme al magistrato, a Francesca Morvillo, anche lei magistrato e moglie di Falcone e agli agenti di scorta Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Il 23 maggio 1992, ero in redazione, di turno per la conduzione del giornaleradio delle 19.30. Una giornata che sembrava come le altre, mai mi sarei aspettata cosa sarebbe successo. Poco dopo le 18, arrivò un’agenzia Ansa che dava la notizia dell’attentato a Capaci. Rimasi senza fiato per un attimo. Stordita. Andai subito in onda a raccontare le prime, frammentarie notizie. Falcone era ancora vivo, in gravissime condizioni. Ma, come si sa, è morto poco dopo insieme alla sua Francesca, agli agenti di scorta. E’ sopravvissuto solo l’autista, Giuseppe Costanza, perché Falcone aveva voluto mettersi alla guida e l’autista si andò a sedere sul sedile posteriore. Vivo, ma ferito nell’anima per sempre. Presi l’ultimo aereo per Palermo. A bordo c’era Ilda Boccassini, allora pm di Milano, oggi procuratore aggiunto dello stesso ufficio. Era collega e amica di Falcone. Non dimenticherò mai il suo volto impietrito dal dolore. Dopo la strage di Capaci si farà trasferire a Caltanissetta per cercare i colpevoli. Un altro flashback: il cratere, enorme, che vidi a Capaci. Era il segno visibile della morte che aveva seminato il tritolo messo lì dai mafiosi per uccidere l’uomo senza il quale, insieme a pochissimi altri magistrati del tempo, non sapremmo nulla della mafia.
Ma solo i boss di Cosa nostra hanno voluto la morte di Falcone? La verità processuale ha indicato solo mafiosi: 37 tra mandanti ed esecutori, di cui 24 all’ergastolo, ma i misteri rimangono. L’ultima rivelazione risale a 4 anni fa, quando il pentito di mafia Gioacchino La Barbera raccontò al pm della procura nazionale antimafia, Gianfranco Donadio che durante l’organizzazione dell’attentato, con i boss mafiosi “c’era un uomo sconosciuto che parlava a bassa voce”. A Capaci fu trovato anche un bigliettino con un numero di cellulare e un indirizzo corrispondete a una sede di copertura del Sisde. L’artificiere della strage fu Pietro Rampulla, mafioso ed ex estremista di destra. Falcone si era trasferito a Roma per lavorare al ministero della Giustizia. Era stato costretto a lasciare la procura di Palermo dopo anni di tribolazioni, di isolamento. Dopo la sua morte Giovanni Falcone è diventato un eroe per tutti, ma in vita è stato ostacolato nelle indagini, accusato di tenere prove a carico di politici nei cassetti, umiliato dal Csm che nel 1988 gli preferì Antonino Meli alla nomina di capo del pool antimafia di cui era stato un protagonista assoluto.
Vorrei chiudere questo ricordo di Falcone con le parole di Paolo Borsellino, pronunciate il primo giugno del ’92, 9 giorni dopo la strage di Capaci, 49 giorni prima che anche lui trovasse la morte insieme a 5 poliziotti di scorta: “Io voglio decisamente credere – aveva detto Borsellino – me lo impongo di crederci ,che la morte di Falcone sia un fatto così dirompente, così drammatico, che bandendo ogni sofismo, ogni ipocrisia, ogni situazione di compromesso, il potere politico riesca ad avere la forza di prendere una serie di decisioni ordinarie ma drastiche. Perché i magistrati non debbano sempre lavorare quasi nonostante le norme. Alcune di esse sembrano fatte a posta soltanto per rendere difficile il loro lavoro. Se non si pone il rimedio tra questa dicotomia, tra molto che si conosce e poco che si riesce a condannare, verrebbe quasi voglia di alzare le braccia”. Da allora sono passati 25 anni. E’ cambiato qualcosa? Non molto, ahimè.
L’AUTRICE – Antonella Mascali, giornalista de Il Fatto quotidiano, ha mosso i primi passi nel giornalismo quando era ancora al ginnasio, alla redazione de I Siciliani, il mensile fondato a Catania da Pippo Fava, ucciso dalla mafia. Si è trasferita a Milano, nonostante l’amore per il mare, si è laureata in Scienze politiche, con indirizzo giuridico, all’Università Statale con il professor Nando dalla Chiesa con una tesi sperimentale: “Le associazioni di interesse: il caso del movimento antiracket di Capo D’Orlando. E’ diventata giornalista professionista a Radio Popolare di Milano. Come inviata a Palermo, ancora studentessa, ha seguito i fatti più tragici degli anni Novanta: l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi, le stragi di Capaci e via D’Amelio. Tra i processi più importanti della storia recente d’Italia ha seguito, a Palermo, quelli a Giulio Andreotti, Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro. A Milano, quelli a Silvio Berlusconi, Cesare Previti e David Mills. Nel 2007 ha vinto il Premio cronista Guido Vergani. Con il libro Lotta civile (Chiarelettere 2009), ha vinto il premio Com&Te Cava Costa d’Amalfi 2009. Nel 2010 sempre per Chiareleterre ha pubblicato insieme a Peter Gomez Il regalo di Berlusconi. Nel 2012 per Chiarelettere ha curato il libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino.
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