C’è molto di paradossale nell’evolversi della situazione dei curdi di Siria e Iraq, a lungo unici in grado di contrastare il Califfato con l’aiuto della Coalizione internazionale quando l’esercito di Damasco si ritirava e quello di Baghdad sbandava. Le battaglie per difendere Kobane, Erbil e Kirlkuk davanti alle offensive dello Stato Islamico hanno lasciato il posto alle rappresaglie nei confronti delle aspirazioni nazionaliste curde.
In Iraq sono state frustrate dalla pressione militare delle truppe
regolari e soprattutto delle milizie scite sostenute dall’Iran che hanno
sottratto ai curdi i territori strappati con le armi all’Isis e
vanificato il referendum che nel settembre scorso aveva sancito la piena
indipendenza del Kurdistan.
In Siria sono soprattutto i turchi a colpire le aree in mano ai curdi
lungo i confini confermando che Erdogan non è disposto ad accettare una
regione (Rojava) indipendente, come di fatto è ora, che minaccerebbe la
stabilità turca incoraggiando l’etnia curda alla rivolta. Il Partito
Democratico Curdo di Siria (PYD) del resto è alleato del Partito curdo
dei Lavoratori (PKK) che da anni lotta per l’indipendenza della regione
curda cdi Turchia.
Per questo i raid aerei e dell’artiglieria turca contro “i
terroristi” nell’énclave curda di Afrin, nel nord-est della Siria,
potrebbero rappresentare solo l’inizio di una più vasta operazione
contro le Forze Democratiche Siriane (FDS), alleanza tra le milizie del
PYD (Forze di Protezione Popolare – YPG) e milizie tribali arabe
sostenute con forniture di armi e qualche migliaio di consiglieri
militari dagli Stati Uniti.
Circa i risvolti internazionali della crisi curda in Iraq e Siria due
aspetti emergono prepotentemente. L’Occidente che aveva celebrato la
resistenza contro il Califfato e “l’epopea di Kobane” (in cui Ankara
aiutò palesemente l’Isis, finanziandolo con l’acquisto del petrolio
estratto dai pozzi occupati e curandone persino i feriti negli ospedali
turchi) oggi sembra aver dimenticato la causa curda.
Persino i militari della Coalizione schierati a Erbil (italiani
inclusi) hanno accettato senza battere ciglio i diktat di Baghdad che
hanno respinto i peshmerga fuori dai territori liberati. Nulla di nuovo,
per carità. In Europa abbiamo la memoria corta e del resto nel
complicato puzzle siriano Ue e Usa non erano forse fianco a fianco
contro Bashar Assad? Quindi implicitamente schierati con i ribelli che
avrebbero voluto portare la sharia a Damasco, inclusi i qaedisti e i
jihadisti del Califfo.
I curdi d’altra parte stanno pagando il prezzo dei gravi errori
compiuti, forse nella convinzione di poter contare sul supporto di
Washington e dell’Occidente. I peshmerga hanno attuato una feroce anche
se poco pubblicizzata pulizia etnica in diverse regioni irachene del
nord e soprattutto a Kirkuk, cacciando moltissimi arabi, nell’illusione
che a guerra finita Baghdad avrebbe accettato di perdere il controllo di
una delle sue più ricche regioni petrolifere.
In Siria l’errore di diventare la “fanteria sacrificabile” degli
Stati Uniti non è stato meno grave e la battaglia di Afrin rappresenta
probabilmente solo un’anticipazione del conto che le FDS/YPG dovranno
pagare.
Le armi, i consiglieri militari e le forze speciali americane hanno
permesso ai curdi di occupare territori siriani ben più ampi di quelli
abitati dalla loro etnia, incluse diverse aree petrolifere che Damasco
vuole riprendersi. Washington ha impiegato le milizie delle SDF per
impedire ad Assad e ai suoi alleati iraniani e russi di liberare tutto
il territorio creando le basi per una Siria di fatto spartita.
Non è un caso che l’attacco turco abbia preso il via dopo che
Washington aveva reso noto che le sue truppe sarebbero rimaste in Siria a
tempo indefinito e avrebbero addestrato e armato 30 mila “guardie di
frontiera” curde.
Un numero chiaramente eccessivo per il solo compito di presidiare il
confine turco. Certo non deve sorprendere la determinazione americana a
destabilizzare il Medio Oriente ma è evidente che Ankara non esita a
rischiare di compromettere definitivamente i rapporti con gli USA pur di
garantire i propri interessi nazionali.
Un occhio di riguardo i turchi lo hanno nei confronti dei russi, con
cui la partnership procede in molti settori inclusa la crisi siriana, e
Mosca ha potuto evacuare i suoi osservatori militari della forza per la
de-escalation del conflitto, prima dell’inizio dell’offensiva di Ankara.
A proposito di paradossi l’offensiva turca vede combattere in prima
linea contro i curdi le milizie siriane turcomanne e arabe riunite sotto
le bandiere dell’Esercito Siriano Libero (nella foto sopra) che venne
costituito in territorio curdo per abbattere il regime di Assad.
Carne da cannone utile a Erdogan per attaccare i curdi limitando le
perdite tra le sue truppe: non a caso tra i 54 caduti nei primi tre
giorni di offensiva ad Afrin non c’erano soldati dell’esercito di Ankara
che ha poi ammesso nei due giorni seguenti due sole perdite. Il capo di
stato maggiore della difesa turco, il generale Hulusi Akar (nella foto
sotto), ha precisato che l’operazione Ramoscello d’ulivo (un nome che
suona amaramente ironico) andrà avanti “finché l’ultimo terrorista non
sarà neutralizzato”.
Molto tenace la resistenza opposta dalle forze curde che hanno
esortato la popolazione a prendere le armi per respingere l’offensiva
turca. L’YPG ha annunciato ieri di avere ucciso in combattimento 30
persone “tra soldati turchi e mercenari” arabi.
Le milizie siriane filo turche erano riuscite lunedì a prendere il
controllo della strategica collina di Barsaya, nel nord del cantone di
Afrin, prima di perderla qualche ora dopo.
Il presidente siriano, che in questi giorni sta schiacciando le
ultime milizie jihadiste nella provincia di Idlib (dove le sue truppe
hanno strappato l’aeroporto di Abu Duhur ai qaedisti del gruppo Hayat
Tahrir al Sham), ha condannato l’attacco turco ad Afrin come violazione
dell’integrità territoriale siriana.
Per la stessa ragione Assad accusa Washington di aver invaso parte
del suo territorio inviando truppe in appoggio ai curdi. Una violazione
del diritto e della sovranità siriana non più giustificabili dalla lotta
allo Stato Islamico e che stranamente la comunità internazionale non ha
mai sanzionato.
In prospettiva Erdogan e Assad potrebbero invece trovare conveniente
unire gli sforzi contro i curdi. Ankara vuole cacciarli dal confine
turco costituendo una fascia di sicurezza di 30 chilometri di profondità
che potrebbe assomigliare a quella costituita per molti anni dagli
israeliani nel sud del Libano.
Damasco vuole invece strappare alle FDS territori e pozzi petroliferi
soprattutto nella provincia di Deir Ezzor. Entrambi, insieme ai russi,
hanno oggi tutto l’interesse a ridurre ai minimi termini le forze curde
anche con l’obiettivo di cacciare gli statunitensi dalla Siria.
Le prospettive sono quindi di un possibile ampliamento delle ostilità
che farebbe rimpiangere ai curdi di Siria di essersi fidati di
Washington respingendo la proposta di Assad, che offriva piena autonomia
al Rojava ma al tempo stesso garanzie ai turchi con il presidio del
confine affidato alle truppe di Damasco.
(con fonte Nuova Bussola Quotidiana)
Foto: Reuters, DPA, Anadolu e AFP
24 gennaio 2018 - Gianandrea Gaiani
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